Roberta B. dopo aver lavorato per alcuni anni come addetta a un "call center" della S.p.A. Atesia, in base a contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, ha chiesto al Tribunale di Roma di accertare che in realtà ella aveva lavorato in condizioni di subordinazione, con conseguente diritto alla stabilizzazione, al pagamento delle differenze di retribuzione maturate e al risarcimento del danno. L'azienda si è difesa sostenendo che si era trattato di prestazioni di lavoro autonomo. Il Tribunale, con sentenza del settembre 2008, ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Roma, che, con sentenza del 2009, ha dichiarato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con effetto dal giugno 2001 e la prosecuzione giuridica del medesimo "sino ad oggi", con condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge e rilevando in particolare che non esisteva alcun potere disciplinare nei confronti degli operatori, che erano liberi di recarsi o meno al lavoro, di dimezzare la prestazione giornaliera e di interromperla. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4476 del 21 marzo 2012) ha rigettato il ricorso. "Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, essendo l'iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo - ha ricordato la Corte - la volontà che esso esprime ed il "nomen iuris" che si utilizza non costituiscono fattori assorbenti, diventando l'esecuzione, la sua inerenza all'attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo strumento d'interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro (ai sensi dell'art. 1362 secondo comma cod. civ.), bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo, al rapporto, un nuovo assetto negoziale". Pertanto, "sia nell'ipotesi in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l'espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell'ipotesi in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l'esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve al tal fine attribuire valore prevalente - rispetto al "nomen juris" adoperato in sede di conclusione del contratto - al comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto stesso".
Nella fattispecie - ha osservato la Cassazione - la Corte d'Appello ha rilevato: che "l'attività si svolgeva all'interno dei locali aziendali e che la lavoratrice doveva coordinarsi con le esigenze organizzative aziendali e quindi era pienamente inserita nell'organizzazione della società, utilizzando strumenti e mezzi di quest'ultima, senza alcun rischio d'impresa"; che dalle risultanze istruttorie era emerso "anche uno stringente assoggettamento al potere di controllo e direttivo, poiché l'attività dell'appellante era sottoposta in primo luogo non tanto a generiche direttive, ma ad istruzioni specifiche, sia nell'ambito di "briefing finalizzati a fornire informazioni e specifiche in merito alle prestazioni contrattuali" (cfr. regolamenti integrativi dei contratti), sia con puntuali ordini di servizio, sia a seguito dell'intervento dell'assistente di sala"; che, in sostanza "il concorso congiunto del sistema informatico, in grado di controllare l'attività del telefonista in tutti i suoi aspetti, e della vigilanza dell'assistente di sala mostrava l'esistenza di un controllo particolarmente accentuato ed invasivo, non usuale neppure per la maggior parte dei rapporti subordinati esistenti e quindi inconciliabile con il rapporto autonomo"; che nel caso in esame la società non aveva dedotto né provato la violazione di obblighi contrattuali senza reazioni disciplinari con riguardo a Roberta B. e che comunque, avendo i contratti di collaborazione una durata di pochi mesi "ad un'eventuale comportamento disciplinarmente rilevante il committente poteva reagire semplicemente con il mancato rinnovo del contratto"(come in effetti emerso dalla testimonianza del responsabile degli assistenti di sala); che, infine, la possibilità per la lavoratrice "di recarsi o meno al lavoro e di effettuare un orario di lavoro autodeterminato pur nell'ambito delle sei ore di turno previste" non costituiva elemento decisivo per affermare la natura autonoma del rapporto, come ritenuto dal giudice di primo grado. Tale accertamento di fatto, conforme ai principi di diritto sopra ribaditi - ha affermato la Cassazione - risulta altresì congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente; una volta, infatti, accertato, nel concreto atteggiarsi del rapporto, il vincolo di soggezione del lavoratore con inserimento nell'organizzazione aziendale, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che non poteva assumere rilevanza contraria la non continuità della prestazione e neppure la mancata osservanza di un preciso orario (così come all'uopo irrilevante era la forma della retribuzione). - (Cassazione Sezione Lavoro n. 4476 del 21 marzo 2012).